His Clancyness: el pibe de oro con chiodo e chitarra

His Clancyness: el pibe de oro con chiodo e chitarra:

Terremoti, apocalissi, annebbiamenti. Nessun ostacolo definitivo. E poi fu primavera e fu estate, e oggi anche quasi autunno. Eppure, riusciamo allo stesso modo ad essere perfettamente in tempo. Così ecco quello che ci siamo perse finora: una chiacchierata con His Clancyness. In versione Pettinata e Spettinata, come siamo capaci noi.
INTERVISTA PETTINATA
Questo ragazzo è aderente, penso mentre Jonathan Clancy risponde alle domande della mia socia (→).
Il Canada dev’essere davvero un posto meraviglioso in cui nascere, se poi risulti così cordiale, equilibrato, aperto. Il frutto di una educazione classica, verrebbe da sornioneggiare.
E’ puntuale col mio ritardo, vestito rock ma elegante, equidistante da eccesso di simpatia/eccesso di freddezza, prende una birra ma piccola. L’aderenza vien fuori poi nell’intervista, parlando di musica e di vita.
Avete presente gli A Classic Education? Se non siete italiani è più facile che la risposta sia sì, perché specialmente in USA e Canada i loro concerti sono sold out, oltre a godere della luce buona di Pitchfork. Jonathan è il cantante degli ACE, ma stavolta lo intervistiamo nei panni di His Clancyness, progetto solista nato nel 2009 in audiocassetta e cresciuto in vinile e digitale.
Di recente ha visto la luce Always mist revisited, una re-collection di 16 tracce che unisce brani scritti tra 2009 e 2011, oltre a tre cover di Ariel Pink’s Haunted Graffiti, Everly Brothers e My Bubba & Mi. Dream pop, lo-fi, folk sono gli aggettivi che più spesso la critica abbina a His Clancyness, ma in cui lui non si riconosce troppo, dichiarandosi semplicemente appassionato di rock e vecchi dischi.
INTERVISTA SPETTINATA
A proposito di nomi, definizioni, scarpe, personaggi imprevedibili e audiocassette.

Davanti a me Sua Regalità. His Clancyness. E mi sentirei un po’ intimorita, se non fosse che in questo momento mi preoccupa di più il fatto che Lola, il mio cane, gli sta abbaiando contro in un certo qual modo imbarazzante.
C’è da dire che la canide in genere non sbaglia un colpo nell’identificazione “dei cattivi” e ora sta quasi per scoprire i denti. Ohibò. E dire che lui appare così garbato e tranquillo. Le sorride pure, dall’alto.
Ma – tagliamo corto – Lola prima o poi smetterà, e io in fondo non sono qui per misurarmi con il Lato Oscuro della Forza di Darth Clancyness.
Anche se, lo confesso, l’aria riservata – aristocratica, parbleu? – di Jonathan Clancy non mi aiuta, torna a galla la vecchia carampana che “cerca di capire la musica dei giovani” che abita in me. Forse che lo sono veramente? No. Soffrirò pure di sudditanza psicologica (Ferrara sotto le Stelle, anno 2007, concerto del cuore: A Classic Education, la band di Jonathan, introduce lo show degli Arcade Fire e io rimango fulminata), ma ci metto un niente a rivestirmi di chiacchiera sbruffoncella. Così mi tuffo di testa.

Raccontami la storia della tua famiglia. Cosa ci fa un Clancy a Bologna?
Mio padre è italiano e mia madre, con cui ho vissuto fino a vent’anni, è canadese. Sono nato a Ottawa e l’ho seguita nei suoi spostamenti di lavoro per l’Italia, è una prof universitaria. Una decina di anni fa siamo venuti a Bologna e qui sono rimasto.
Ti piace?
Molto. Giro spesso ma poi finisco sempre col tornare qui.
Che cosa rappresenta His Clancyness nel tuo percorso artistico?
Rappresenta me da solo. In inglese “His Clancyness” risulta un po’ arrogante, al contrario di come è la mia indole: mi piaceva questo lato del nome, mi sono imposto di essere più sfrontato rispetto a quando suono con gli A Classic Education e tendo a proteggermi. Qui mi metto a nudo.

Perché fai musica?
Perché è l’unica cosa che mi riesce bene e che voglio fare, l’unica in cui veramente mi sento realizzato. Non è detto che debba diventare un lavoro – per me praticamente non lo è mai stato e non lo è ancora – ma è ciò su cui voglio passare gran parte del mio tempo. Se vuoi fare musica a questi livelli devi quindi lavorare per fare in modo che diventi il tuo lavoro.
Quando hai deciso di suonare?
Intorno ai 14 anni.
Che cosa ti preme di più comunicare?
Mi piacerebbe poter creare un mood, un’atmosfera in cui le persone possano trasferire le proprie emozioni. In Italia c’è poco la tradizione del rock perché c’è una forte – e ottima – tradizione cantautorale che, però, si focalizza molto sul significato dei testi. Per me le parole posso anche semplicemente creare un mondo visivo, evocare. Per me questo è importante.
Progetti per l’estate?
Scrivere il disco. Ho questo modo di scrivere che è stare da solo in casa, fondamentalmente sto registrando brani come quelli che sono già usciti, con la stessa qualità – non sono dei demo. Poi andrò con una band, ognuno avrà le sue parti e registreremo da capo. Quindi a fine estate-inizio autunno ci sarà il disco, poi vedremo quando uscirà.
Un nome, un perché
Non resisto. Voglio assolutamente sapere come His Clancyness abbia scelto il suo nome. E non me ne vergogno, anche se so che è la Domanda Banale Nr. 1, quella che gli rivolgono proprio tutti per coglierlo con le dita nella marmellata. Un nome genialmente supponente, forse ancor più per un anglofono. Un soprannome, mi risponde, vago. Che poi sia ironico o non ironico, uno non dovrebbe nemmeno domandarselo dico io.
His Clancyness. Distillato di Clancinezza, la sua Qualità primaria, quasi che ci trovassimo tra i quadratini della tabella degli elementi. Quale sia questa qualità, difficile a dirsi. Proviamo a indagarla a parole tra noi, ma deduco – il che suona come garanzia di autenticità – che sia sicuramente molto più facile ascoltarla via musica, dato che la Clancinezza se ne sta sospesa – evidente – galleggiante nell’etere delle atmosfere sonore clanciniane. Che sia ottenuta attraverso arrangiamenti che riecheggino il fai da te, erroneamente identificati con un voluto impegno LO-FI, o magari attraverso l’uso di suoni sofisticati, non così glossy ma nemmeno così ruspanti, non importa.
His Clancyness ci tiene a specificarlo. Lui usa tutto quello che serve al suo scopo, è quello che dà coerenza, non un teorema di appartenenza ad una corrente. Allo stesso modo si può forse dire che quella che troviamo, fotogramma dopo fotogramma, nel video di Summer Majestic realizzato dal regista Jamie Harley (e premiato da Rolling Stone) ne sia la versione visiva? Coerenza pura. A cui non mi sforzo di dare un nome preciso e una ragione ontologica, rispolverando una piccola incursione polemica a proposito di “etichettature” a tutti i costi.
La musica va prima di tutto ascoltata, poi magari raccontata. Ma se proprio proprio vogliamo, Jonathan allora “ci racconta” che nella sua produzione firmata H.C. quasi ogni strumento viene suonato da lui. Magari non al top, ma proprio farina del suo sacco. E anche questa autarchia produttiva distingue il progetto dal lavoro collettivo della band, A Classic Education.
Non è da tutti riuscire a combinare in una realizzazione concreta il cosciente concentrato di quello che si sente di essere. Aggiungiamo pure che è un notevole atto di coraggio. Quanto desidererei pensar di poter focalizzare tutta la mia “Santoritudine” in un qualcosa. Eppure alla fine, per quanto possa essere letto come gesto di omaggio all’artista, penso che sarebbe meglio evitare. Glielo racconto e ci ridiamo pure su. Lui benevolo e io vergognosetta.

“E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo”, aggiungerei sottolineando che ora arriva il Momento Radiocorriere TV.
Una canzone, un’ispirazione?
Ottawa Backfired soon, questo il titolo che sceglie senza esitare Jonathan Clancy, e non è comune una decisione così cristallina a questo punto. L’occhio vitreo per qualche secondo sarebbe la prassi. Con questa traccia si ritorna direttamente alle memorie un po’ nostalgiche dell’adolescenza. Un temperamento sentimentale Mr. Clancyness, ammette egli stesso, dopo una mia spintarella. Guardarsi dietro le spalle, l’infanzia: ecco un assaggio di malinconia onirica e riverberante. Diamole anche un tema su cui ricamare e non solo una sonorità. Ottawa è la città dove Jonathan è nato e dove ha giocato durante i suoi primi inverni.
Qual è la tua traccia preferita di Always mist revisited?
Mistify the ocean.
L’estate ritorna due volte nei titoli di Always mist revisited [Vampire summer e Summer majestic, NdR.]. C’è un motivo?
Perché è stato scritto quasi tutto durante l’estate. Spesso in vacanza nei posti in cui vado ho più tempo anche di pensare ai testi, che sono scritti quasi sempre in momenti via da casa.
Dove vai in vacanza?
Siam sempre in giro quindi durante l’estate cerco l’opposto. Vado in Croazia in posti dove non c’è quasi niente, oppure in Canada.
Cosa sognavi di fare a tredici anni?
Suonare.
Uno strumento in particolare?
Cantare. Ho due sorelle, con loro giocavamo a imitare Annie Lennox, Michael Jackson…
Loro suonano?
No, cioè mia sorella minore fa un po’ violoncello, ma poco.
El pibe de oro
Ma quando si viene a parlare dell’icona favorita, ecco… l’inaspettato. Una crepa sottile sembrerebbe aprirsi in questo microcosmo estetico. Ci saremmo aspettati un rombante eroe solitario anni ’50, un virtuoso della chitarra, un poeta nostalgico, o chissà cos’altro, ma non certo Diego Armando Maradona.
Non lui, che in comune con Jonathan Clancy ha forse solo gli indomabili capelli (invidia). Rimando ad un altro momento lo studio delle metafore e delle similitudini tra H.C. e Diego Armando. Per ora mi tengo il calcio, il numero 10, il Napoli, la leggenda, e questo basta.
E comunque la risposta non si esaurisce così in fretta. Tra le icone torna a fare capolino di nuovo il Canada, grazie ad uno dei suoi recenti figli letterari.
Chi non ricorda La versione di Barney versione grande schermo, con Paul Giamatti? Non si parla di lui ovviamente, ma dell’autore del romanzo originale, Mordecai Richler, di Montreal. Un romanzo di formazione, così viene definito questo successo editoriale del 1997, uno di tanti a dire il vero. Così come un “romanzo musicale di formazione” mi appaiono una dopo l’altra e insieme le tracce delle cassette e delle ultime produzioni di His Clancyness a ripensarci. Ma per ogni bieco azzardo di critica pagherò pegno, non è il mio mestiere. Preferisco tornare al mio frivolo orticello a zappettare consapevoli futilità.

Che cosa faresti se non suonassi?
Resterei sempre nell’ambito, gestirei un locale piuttosto che organizzare concerti. Il nostro sogno è mettere su un locale… avendone visti tanti, soprattutto all’estero, che corrispondono al locale che vorremmo vedere noi in città.
Anche a Bologna?
Sì.
Domanda stupida. Che rapporto hai con gli emoticon?
Non abbrevio le parole, non mi piace, però secondo me la faccina che ride o che strizza l’occhio a volte può rappresentare veramente bene ciò che vuoi dire. Le uso con moderazione.
Passaggio del testimone. Se dovessi decidere tu chi intervistiamo la prossima volta?
Uno incredibile che sento anche vicino a ciò che faccio: Kurt Vile, un genio e folle completo, musica coi controcoglioni.
Daniela Garutti


Le scarpe di Patrizia Pepe
E dunque si arriva ad eventuali passioni fashion, così per dire. Roba che difficilmente ci viene confessata, ma che – con il candore tipico di chi sa che può permetterselo, perché la snobberia ha la residenza altrove – Mr. Clancy butta sul tavolo senza remora alcuna. «Mi piace la moda». E qui rimaniamo a bocca aperta. Ma, precisa, non i brand. Non per niente His Clancyness:
1) può vantare di rientrare nello “staff organizzativo” di uno di quelli che una volta noi signorine un po’ agée chiamavamo Mercatini, poi diventati Swap e infine oggi Garage Sale, con l’aggiunta di quel pizzico di provincia americana che amiamo tanto. Ne deduciamo che Jonathan Clancy ama i mercatini;
2) nel momento in cui lo incontriamo ha ai piedi un paio di scarpe regalo di Patrizia Pepe, e non le ha comprate lui. Il dono della stilista rimanda allo show che His Clancyness mise in scena per lei in occasione di un Pitti Immagine. Inoltre in una delle sue foto promozionali compare con in mano le sue scarpe preferite (oddio, le stesse? Non so.). Ne deduciamo quindi che a Jonathan oltre che il chiodo (e c’è anche un suo perché) piacciono le scarpe.
Rimane solo da indagare cosa ne pensa dei profumi. Comme des Garçons. Perfetto.
Ancora adolescenza, una domanda che non poteva sfuggire nel romanticismo di questo tramonto visto dai portici bolognesi.
La cassettina dell’ammore.
Jonathan ama le cassette, i nastri, continua a produrne e ci racconta che esiste un mercato specifico per appassionati. Per fortuna – penso tra me – che io i miei li ho impacchettati e racchiusi in amorevoli scatole, invece di scaraventarli via. E qui arriva l’ipocrita dubbio (metti insieme la parola “adolescenza”, un tocco di Nick Hornby e la parola “sentimentale”): «Jonathan, hai mai creato una cassettina per una ragazza?» Sono un po’ riottosa a chiederlo, vecchia voyeur che non sono altro. «Sì» mi risponde disarmante. «E cosa ci avresti registrato?» Questa risposta vale oro. Everly Brothers, un po’ di tardo Elvis, gli Swell Maps (NdR band inglese degli anni 70, tra i T-Rex e il punk) e una preziosità country, Skeeter Davis.

«E la prima cassetta (normalmente chiediamo il vinile ma visto il caso specifico) che hai comprato?»

«Use your Illusion 2».

Colpo di scena. Anche Jonathan Clancy è stato piccolo.
Francesca Santoro

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